Cicerone, De officiis: Libro 01 - Parte 02, pag 2

Cicerone, De officiis: Libro 01 - Parte 02

Latino: dall'autore Cicerone, opera De officiis parte Libro 01 - Parte 02
Nec cauponantes bellum, sed belligerantes: ferro, non auro vitam cernamus utrique

Vosne velit an me regnare era, quidve ferat; fors;virtute experiamur

Et hoc simul accipe dictum: quorum virtuti belli Fortuna pepercit, eorundem libertati me parcere certum est

dono, ducite, doque volentibus cum magnis dis

Regalis sane et digna Aeacidarum genere sententia

Atque etiam si quid singuli temporibus adducti hosti promiserunt, est in eo ipso fides conservando

Ut primo Punico bello Regulus captus a Poenis, cum de captivis commutandis Romam missus esset iurassetque se rediturum

Primum, ut venit, captivos reddendos in senatu non censuit, deinde, cum retineretur a propinquis et ab amicis, ad supplicium redire maluit quam fidem hosti datam fallere
Noi non facciamo la guerra da mercanti, ma da soldati: non con l'oro, ma col ferro decidiamo della nostra vita e della nostra sorte

Sperimentiamo col valore se la Fortuna, arbitra delle cose umane, conceda a voi o a me l'impero; o vediamo se altro ci arrechi la sorte

E ascolta anche queste altre parole: è mio fermo proposito lasciare la libertà a tutti quelli, al cui valore la fortuna delle armi lasciò la vita

Ecco, riprendeteli con voi: io ve li offro in dono col favore del cielo

Parole veramente regali e degne di un Eacida

Ancora se le singole persone, costrette dalle circostanze, fanno qualche promessa al nemico, devono scrupolosamente mantenerla

Così, per esempio, nella prima guerra punica, Regolo, caduto in mano dei Cartaginesi, fu mandato a Roma per trattare lo scambio dei prigionieri, sotto giuramento che sarebbe ritornato

Come giunse, per prima cosa, dichiarò in senato che non bisognava restituire i prigionieri; poi, benché i parenti e gli amici cercassero di trattenerlo, egli volle tornare al supplizio piuttosto che violare la parola data al nemico
[Secundo autem Punico bello post Cannensem pugnam quos decem Hannibal Romam misit astrictos iure iurando se redituros esse nisi de redimendis is, qui capti erant, impetrassent, eos omnes censores, quoad quisque eorum vixit, quod peierassent in aerariis reliquerunt, nec minus illum, qui iure iurando fraude culpam invenerat

Cum enim permissu Hannibalis exisset e castris, rediit paulo post, quod se oblitum nescio quid diceret; deinde egressus e castris iure iurando se solutum putabat, et erat verbis, re non erat

Semper autem in fide quid senseris, non quid dixeris, cogitandum est

Maximum autem exemplum est iustitiae in hostem a maioribus nostris constitutum, cum a Pyrrho perfuga senatui est pollicitus se venenum regi daturum et eum necaturum

Senatus et C Fabricius eum Pyrrho dedit
[Nella seconda guerra punica, poi, dopo la battaglia di Canne, quei dieci giovani che Annibale mandò a Roma, vincolati dal giuramento che avrebbero fatto ritorno, se non avessero ottenuto il riscatto dei prigionieri, tutti, finché ciascuno di loro visse, furono lasciati dai censori, appunto perché spergiuri, fra i tributari; e non meno degli altri, colui che era caduto nella colpa di un giuramento non rispettato

Uscito, difatti, dal campo col permesso di Annibale, vi ritornò poco dopo, col pretesto d'aver dimenticato non so che cosa; poi, uscito di nuovo dal campo, si teneva prosciolto dal giuramento; ed era, a parole, ma non di fatto]

Quando si tratta di lealtà, bisogna guardar sempre, non alla lettera, ma allo spirito della parola

[Il più grande esempio, di lealtà verso il nemico fu dato dai nostri padri, quando un disertore di Pirro offrì al senato di uccidere il re col veleno

Il Senato e Gaio Fabrizio consegnarono il disertore a Pirro
Ita ne hostis quidem et potentis et bellum ultro inferentis interitum cum scelere approbavit

Ac de bellicis quidem officiis satis dictum est

Meminerimus autem etiam adversus infimos iustitiam esse servandam

Est autem infima condicio et fortuna servorum

Quibus non male praecipiunt, qui ita iubent uti, ut mercennariis, operam exigendam, iusta praebenda

Cum autem duobus modis, id est aut vi aut fraude, fiat iniuria, fraus quasi vulpeculae, vis leonis videtur; utrumque homine alienissimum, sed fraus odio digna maiore

Totius autem iniustitiae nulla capitalior quam eorum, qui tum, cum maxime fallunt, id agunt, ut viri boni esse videantur

De iustitia satis dictum
Così, neppure di un nemico potente e aggressore si approvò la morte, se questa doveva comportare un delitto]

E dei doveri di guerra ho parlato abbastanza

Dobbiamo poi ricordare che anche verso le persone più umili si deve osservar la giustizia

E più umile d'ogni altra è la condizione e la sorte degli schiavi

Ottimo è il consiglio di coloro che raccomandano di valersi di essi come di lavoratori a mercede: si esiga buon lavoro, ma si dia la dovuta ricompensa

In due modi poi si può recare offesa: cioè con la violenza o con la frode; con la frode che è propria dell'astuta volpe e con la violenza che è propria del leone; indegnissime l'una e l'altra dell'uomo, ma la frode è assai più odiosa

Fra tutte le specie d'ingiustizia, però, la più detestabile è quella di coloro che, quando più ingannano, più cercano di apparir galantuomini

Ma basti per la prima parte della giustizia

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Cicerone, De officiis: Libro 03 - Parte 01

Latino: dall'autore Cicerone, opera De officiis parte Libro 03 - Parte 01

Deinceps, ut erat propositum, de beneficentia ac de liberalitate dicatur, qua quidem nihil est naturae hominis accommodatius, sed habet multas cautiones

Videndum est enim, primum ne obsit benignitas et iis ipsis, quibus benigne videbitur fieri, et ceteris, deinde ne maior benignitas sit, quam facultates, tum ut pro dignitate cuique tribuatur; id enim est iustitiae fundamentum, ad quam haec referenda sunt omnia

Nam et qui gratificantur cuipiam, quod obsit illi, cui prodesse velle videantur, non benefici neque liberales, sed perniciosi assentatores iudicandi sunt, et qui aliis nocent, ut in alios liberales sint, in eadem sunt iniustitia, ut si in suam rem aliena convertant
Parlerò, ora, come mi ero proposto, della beneficenza e della generosità, che è senza dubbio la virtù più consona alla natura umana, ma richiede non poche cautele

Bisogna, anzitutto, badare che la generosità non danneggi o la persona che si vuol beneficare, o gli altri; inoltre, che la generosità non sia superiore alle nostre forze; infine, che si doni a ciascuno secondo il suo merito: questo è il vero fondamento della giustizia, che deve caratterizzare sempre ogni precetto

In verità, quelli che fanno un favore che si risolve in danno per colui al quale essi, in apparenza, vogliono giovare, non meritano il nome di benefattori o di generosi bensì di malefici adulatori; e quelli che tolgono agli uni per esser generosi con gli altri, commettono la stessa ingiustizia di chi, si appropria dei beni altrui
Sunt autem multi et quidem cupidi splendoris et gloriae, qui eripiunt aliis, quod aliis largiantur, ique arbitrantur se beneficos in suos amicos visum iri, si locupletent eos quacumque ratione

Id autem tantum abest ab officio, ut nihil magis officio possit esse contrarium

Videndum est igitur, ut ea liberalitate utamur, quae prosit amicis, noceat nemini

Quare L Sullae, C Caesaris pecuniarum translatio a iustis dominis ad alienos non debet liberalis videri; nihil est enim liberale, quod non idem iustum

Alter locus erat cautionis, ne benignitas maior esset quam facultates
Ci sono poi molti, e proprio fra quelli più avidi di onore e di gloria, i quali tolgono agli uni per elargire ad altri; e credono di passare per benefici verso i loro amici, se li arricchiscono in qualunque maniera

Ma ciò è tanto lontano dal dovere che anzi nulla è più contrario al dovere

Si cerchi dunque di usare quella generosità che giova agli amici e non nuoce ad alcuno

Perciò l'atto con cui Lucio Silla e Gaio Cesare tolsero ai legittimi proprietari i loro beni per trasferirli ad altri, non deve sembrar generoso: non c'è lgenerosità dove non è giustizia

La seconda cautela da usarsi è, come s'è detto, che la generosità non superi le nostre forze

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Cicerone, De officiis: Libro 01 - Parte 03

Latino: dall'autore Cicerone, opera De officiis parte Libro 01 - Parte 03

Quod qui benigniores volunt esse, quam res patitur, primum in eo peccant, quod iniuriosi sunt in proximos; quas enim copias his et suppeditari aequius est et relinqui eas transferunt ad alienos; inest autem in tali liberalitate cupiditas plerumque rapiendi et auferendi per iniuriam, ut ad largiendum suppetant copiae ; videre etiam licet plerosque non tam natura liberales quam quadam gloria ductos, ut benefici videantur facere multa, quae proficisci ab ostentatione magis quam a voluntate videantur

Talis autem simulatio vanitati est coniunctior quam aut liberalitati aut honestati
Coloro che vogliono essere più generosi di quel che le loro sostanze consentono, peccano, in primo luogo, d'ingiustizia verso i loro più stretti congiunti, trasferendo ad estranei quelle ricchezze che sarebbe più giusto donare o lasciare ad essi; in secondo luogo, peccano di cupidigia, in quanto tale generosità implica per lo più la bramosia di rapire e di sottrarre illegalmente per aver modo e agio di fare elargizioni; in terzo luogo, peccano d'ambizione: infatti, la maggior parte di costoro, non tanto per naturale generosità, quanto per prepotente vanagloria, pur di apparire benefici, fanno molte cose che sembrano scaturire più da ostentazione che da sincera benevolenza

Tale simulazione è più vicina all'impostura che alla generosità o all'onestà
Tertium est propositum, ut in beneficentia dilectus esset dignitatis; in quo et mores eius erunt spectandi, in quem beneficium conferetur, et animus erga nos et communitas ac societas vitae et ad nostras utilitates officia ante collata; quae ut concurrant omnia, optabile est; si minus, plures causae maioresque ponderis plus habebunt

Quoniam autem vivitur non cum perfectis hominibus planeque sapientibus, sed cum iis, in quibus praeclare agitur, si sunt simulacra virtutis, etiam hoc intellegendum puto, neminem omnino esse neglegendum, in quo aliqua significatio virtutis appareat, colendum autem esse ita quemque maxime, ut quisque maxime virtutibus his lenioribus erit ornatus, modestia, temperantia, hac ipsa, de qua multa iam dicta sunt, iustitia
Terza cautela da osservare è che, nella beneficenza, si faccia un'avveduta scelta dei meriti; bisogna, cioè, considerare bene il carattere della persona che si vuol beneficare, la disposizione dell'animo suo verso di noi, i rapporti sociali che tra noi intercedono e, infine, i servigi che essa ci ha resi: è desiderabile che tutte queste ragioni concorrano insieme; altrimenti le più numerose le più importanti avranno un peso maggiore

E poiché si vive non assieme ad uomini perfetti e del tutto saggi, ma con gente in cui è già molto se c'è un'ombra di virtù, bisogna anche persuadersi (io credo) che non si debbba assolutamente trascurare nessuno, da cui trasparisca un qualche indizio di virtù; anzi, con tanta maggior cura si deve coltivare una persona, quanto più essa è adorna di certe virtù più miti, come la moderazione, la temperanza e quella stessa giustizia di cui si è già tanto parlato

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Cicerone, De officiis: Libro 01 - Parte 05

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Nam fortis animus et magnus in homine non perfecto nec sapiente ferventior plerumque est, illae virtutes bonum virum videntur potius attingere

Atque haec in moribus

De benivolentia autem, quam quisque habeat erga nos, primum illud est in officio, ut ei plurimum tribuamus, a quo plurimum diligamur, sed benivolentiam non adulescentulorum more ardore quodam amoris, sed stabilitate potius et constantia iudicemus

Sin erunt merita, ut non ineunda, sed referenda sit gratia, maior quaedam cura adhibenda est; nullum enim officium referenda gratia magis necessarium est

Quodsi ea, quae utenda acceperis, maiore mensura, si modo possis, iubet reddere Hesiodus, quidnam beneficio provocati facere debemus

An imitari agros fertiles, qui multo plus efferunt, quam acceperunt
Invero, un animo forte e grande, in un uomo non perfetto e non saggio, è per lo più troppo fervido; quelle virtù, invece, sembrano convenir piuttosto al comune uomo dabbene

E questo valga per ciò che riguarda il carattere

Quanto alla benevolenza che altri mostrano verso di noi, il primo nostro dovere è che più si dia a chi più ci ama; ma questa benevolenza, non dobbiamo giudicarla, come fanno i giovinetti, da uno slancio d'affetto, ma piuttosto dalla sua stabilità e saldezza

Se poi qualcuno ha meriti tali verso di noi, che noi dobbiamo, non già acquistarci la sua gratitudine, ma testimoniargli la nostra, allora bisogna adoperare maggior zelo: nessun dovere è più imperioso che il ricambiare un beneficio ricevuto

E se Esiodo consiglia di rendere in maggior misura, solo che tu possa, quello che hai avuto in prestito, che cosa dobbiamo fare se qualcun altro ci previene nel benefizio

Non dobbìamo forse imitare i campi fertili, che rendono assai più di quel che ricevono
Etenim si in eos, quos speramus nobis profuturos, non dubitamus, officia conferre, quales in eos esse debemus, qui iam profuerunt

Nam cum duo genera liberalitatis sint, unum dandi beneficii, alterum reddendi, demus necne in nostra potestate est, non reddere viro bono non licet, modo id facere possit sine iniuria

Acceptorum autem beneficiorum sunt dilectus habendi, nec dubium, quin maximo cuique plurimum debeatur

In quo tamen inprimis, quo quisque animo, studio, benivolentia fecerit, ponderandum est

Multi enim faciunt multa temeritate quadam sine iudicio, vel morbo in omnes vel repentino quodam quasi vento impetu animi incitati; quae beneficia aeque magna non sunt habenda atque ea, quae iudicio, considerate constanterque delata sunt
E se non esitiamo a prestare i nostri servigi a coloro dai quali ci ripromettiamo vantaggi futuri, quale riconoscenza non dobbiamo avere verso coloro che già ci hanno recato vantaggi

Ci sono due maniere di generosità: quella che consiste nel fare il beneficio e quella che consiste nel renderlo; se il farlo o il non farlo è in nostra facoltà, il non renderlo non è lecito a un uomo dabbene, purché possa fare ciò senza commettere un'ingiustizia

Quanto, poi, ai benefici ricevuti, bisogna far distinzione tra essi, e non c'è dubbio che, maggiore è il beneficio, maggiore è il debito di riconoscenza

A questo riguardo, tuttavia, bisogna soprattutto considerare con quale animo, con quale zelo, con quale benevolenza ciascuno l'ha fatto

In realtà, molte persone, per una certa leggerezza, fanno molti benefici, così, senza discernimento, perché spronate, o da una morbosa benevolenza verso tutti, o da un improvviso impeto dell'animo, quasi come da una raffica di vento: questi benefici però non vanno tenuti nella stessa considerazione di quelli che furono prestati con giusto criterio, con meditata e consapevole fermezza

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Sed in collocando beneficio et in referenda gratia, si cetera paria sunt, hoc maxime officii est, ut quisque opis indigeat, ita ei potissimum opitulari; quod contra fit a plerisque; a quo enim plurimum sperant, etiamsi ille iis non eget, tamen ei potissimum inserviunt

Optime autem societas hominum coniunctioque servabitur, si, ut quisque erit coniunctissimus, ita in eum benignitatis plurimum conferetur

Sed quae naturae principia sint communitatis et societatis humanae, repetendum videtur altius

Est enim primum quod cernitur in universi generis humani societate

Eius autem vinculum est ratio et oratio, quae docendo, discendo, communicando, disceptando, iudicando conciliat inter se homines coniungitque naturali quadam societate
In ogni modo, tanto nel fare, quanto nel ricambiare il beneficio, è nostro categorico dovere, (se tutte le altre condizioni sono pari), porgere più specialmente aiuto a colui che ha più bisogno d'aiuto; i più, invece, fanno tutto il contrario: prestano più specialmente i loro servigi a colui dal quale più sperano, anche se egli non ne abbia bisogno

Il miglior modo per mantener salda la società e la fratellanza umana è di usare maggior generosità verso chi ci è più strettamente congiunto

Ma conviene, io penso, risalire più indietro e mostrare quali siano i principi naturali che reggono l'umano consorzio

Il primo è quello che si scorge nella società dell'intero genere umano

La sua forza unificatrice è la ragione e la parola, che, insegnando e imparando, comunicando, discutendo, giudicando, affratella gli uomini tra loro e li congiunge in una specie di associazione naturale

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