IN UNA CORRISPONDENZA CON UN AMICA, Élisabeth Vigée Le Brun RACCONTA LA STORIA DI QUESTO DIPINTO
nel 1788 degli ambasciatori furono mandati a Parigi dall'imperatore Tipoo-Saib. Vidi questi indiani all'Opera e mi parvero così straordinariamente pittoreschi che volli fare i loro ritratti. Avendo espresso tale desiderio al loro interprete, seppi che non avrebbero mai acconsentito a lasciarsi dipingere se la richiesta non fosse giunta da parte del re e io ottenni questo favore da sua Maestà.
Andai al palazzo dove abitavano, perché volevano essere dipinti in casa loro, portai grandi teli e colori. Quando giunsi nel loro salone, uno di loro portò dell'acqua di rose e me ne asperse le mani; poi il più alto, che si chiamava Davich Khan, mi concesse di dipingerlo. Lo ritrassi in piedi, con il pugnale in mano. I panni, le mani, tutto fu fatto dal vero, tanto posava con compiacenza. Lasciai asciugare il quadro in un altro salotto e cominciai il ritratto del vecchio ambasciatore che ritrassi con il figlio vicino. Il padre specialmente aveva una testa magnifica. entrambi indossavano vesti di mussola bianca, cosparse di fiori d'oro; e queste vesti, specie di tuniche a larghe maniche plissettate in sbieco, erano trattenute da ricche cinture. Finì completamente il lavoro presso di loro, tranne lo sfondo e la parte inferiore dei vestiti [...]
Questi due quadri sono stati esposti al Salone del 1789. Dopo la morte di Le Brun che si era impadronito di tutte le mie opere, sono stati venduti e non so chi oggi ne sia in possesso.
Addio cara gentile amica
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