Nel capitolo precedente abbiamo osservato di che natura sia il suo ruolo di intermediario tra il potere e gli uomini e come questo ruolo gli dia un potere molto forte sugli altri.
In questo capitolo abbiamo modo di vedere, nei dialoghi con Renzo, come don Abbondio gestisca il suo poter tramite l'inganno, la doppiezza, il gioco di parole, quale effetto abbia su Renzo: costretto ad accettare la decisione del curato di obbedire al divieto di Don Rodrigo, il giovane finisce per comprendere le ragioni dell'anziano prete, che si presenta come vittima, e si immerge in fantasie omicide contro il tiranno e rischia di commettere azioni irreparabili. Quale sia il giudizio del narratore su un personaggio come don Abbondio, che travia le anime anziché salvarle, non è del tutto esplicito nei promessi sposi.
Olo quando condanna genericamente i provocatori, i soverchiatori, tutti coloro che in qualunque modo, fanno torto altrui, tra cui il lettore implicitamente deve annoverare anche il curato. Con la solita garbata ironia, Manzoni chiariva allora la sua posizione nei confronti del personaggio, ma così benevolo quanto la sua ironia: non ci può essere pietà per un vigliacco, che non compie il proprio dovere; meglio un vantaggio capace di scelte coraggiose, anche se sbagliate, perché ha almeno la capacità di sentire alte passioni e di prendere decisioni coraggiose.
Resta da chiedersi perché Manzoni abbia scelto di mettere il proprio giudizio su don Abbondio. La scelta rientra in una strategia che ha coinvolto l'intero romanzo e ha suscitato interrogativi nei critici. L'ipotesi che più possiamo avanzare è che abbia voluto rendere più ambiguo il personaggio, meno negativo e lasciare al lettore la libertà, ma anche il compito di giudicare autonomamente e di condannare più o meno pesantemente i propri personaggi secondo la propria coscienza.