Gesù ha la barba lunga ed è disteso su una lastra di marmo ricoperto parzialmente da un sudario. Visibili i segni della sofferenza, del dolore patito senza concessione. Piedi e mani bucate, la carne è stata trapassata dai chiodi del martirio. Il volto è reclinato verso destra da dove arriva una fonte di luce che illumina la stanza. L'atmosfera è gelida, carica di partecipazione emotiva. Il corpo torturato è freddo e immobile. Si trova adagiato per essere preparato alla sepoltura. Di lato un vasetto di unguento: la mirra.
Cristo umiliato e ucciso è livido con il colore della morte. Mostrato nella sua debolezza umana si offre in sacrificio agli uomini. Non conosciamo il comittente dell'opera, per questo alcuni sostengono che il Mantegna la realizzò per devozione
A colpire, nel Cristo morto, non è tanto il soggetto in se, quanto ciò che attraverso il soggetto l'artista riesce a comunicare, soprattutto grazie all'inedita struttura prospettica. Mantegna inquadra dai piedi in su il Cristo adagiato sul letto di morte, e, accanto al cadavere, rappresentato con questo inquietante taglio da reportage bellico, fa affacciare le figure dei dolenti, cioè il San Giovanni Evangelista e la Madonna.
E' un dolore vero, scolpito, impietrito, quello che Mantegna dipinge per l'eternità nel volto dei due personaggi; un dolore che attraverso l'artificio prospettico, comunica una straordinaria tensione umana. L'attenzione è concentrata esclusivamente sul cadavere, sulla mano e sui piedi lividi e tumefatti, in cui ormai il sangue non scorre più, e quel poco che è rimasto è rappreso intorno ai fori prodotti dai chiodi della Croce; tutta la composizione è costruita per evidenziare quelle lacerazioni.
In questa tragedia c'è qualcosa di implacabile e insieme di meccanico: un contrasto analogo a quello tra la rigidità del corpo e la sua infinita dolcezza, l'umanità così intensa da far percepire la natura divina celata sotto una morte assoluta è incontrovertibile. Dietro la tela sentiamo, come al di là di un velo, la certezza di Dio